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Psicologia generale, di che cosa si occupa

Con la definizione "psicologia generale" si fa riferimento alla corrente principale della ricerca scientifica sulle funzioni psicologiche di base. Essa si prefigge lo scopo di studiare e approfondire le conoscenze sulla mente umana e sul comportamento, utilizzando il con metodo sperimentale.
 

Per il suo orientamento prevalente, viene spesso assimilata alla "psicologia cognitiva".

Attraverso metodiche classiche relative alla psicologia sperimentale, come le metodologie di derivazione comportamentista, la misurazione dei tempi di reazione o le tecniche psicometriche, la psicologia generale si focalizza principalmente sui processi cognitivi.

La psicologia generale fa riferimento ai progressi delle neuroscienze, e spesso la ricerca in questo settore non è disgiunta dall'utilizzo di metodiche non originariamente psicologiche, come le tecniche elettrofisiologiche o le tecniche di neuroimmagine. Queste ultime però sono utilizzate maggiormente in neuropsicologia. 

Gli ambiti della psicologia generale riguardano i seguenti costrutti:
    Apprendimento
    Attenzione
    Cognizione
    Coscienza
    Emozione
    Intelligenza
    Linguaggio
    Memoria
    Motivazione
    Pensiero
    Percezione
    Personalità
    Sensazione
    Motivazione e Volizione

Costantemente connessi, possibili danni

Il fatto di essere eternamente iperconnessi, comporta un sovraccarico di informazioni che incide negativamente sulla memoria, oltre che sulla capacità di attenzione.

Il neuropsicologo Francis Eustache è uno dei più grandi studiosi contemporanei dei processi di memorizzazione.
Secondo F. Eustache, una pesante conseguenza dell’utilizzo sfrenato degli smartphone è data dalla enorme quantità di dati che immagazziniamo.
Essi generano in noi un sovraccarico cognitivo: lo sforzo mentale che il cervello deve affrontare è direttamente proporzionale alla quantità dei dati in ingresso. Tutto questo comporta un affaticamento che non è assolutamente trascurabile e, alla lunga, genera pesanti ripercussioni.

Troppi dati che vengono consultati e immagazzinati, in aggiunta alle sollecitazioni che avvengono in simultanea tra loro, aumentano la pressione psicologica e conseguentemente anche lo stress e i livelli di cortisolo.
Più stress, più perdita di concentrazione, più stanchezza mentale fino ad arrivare al rischio di depressione.
Secondo Francis Eustache, lo stress permanente potrebbe portare a una perdita della capacità mnemonica. La cosiddetta "rete di default", che è fondamentale per mantenere un alto grado di memoria, funziona solo quando il cervello è a riposo. Dobbiamo dunque evitare grosse sollecitazioni al cervello per far sì che lo stato della nostra memoria e le nostre capacità di memorizzare siano sempre ottimali.

Pare davvero difficile restare concentrati su una attività se ogni 75 secondi avviene un’interruzione data dall’uso del cellulare. Si stima che, sul luogo di lavoro, ci si fermi mediamente ogni 6 minuti per controllare la posta o i messaggi sullo smartphone.

Coloro che pensano di essere ‘multi-tasking’ – cioè si sentono pienamente in grado di gestire più cose contemporaneamente – rimarranno delusi dinanzi ai risultati di uno studio condotto dalla neuroscienziata Aurélie Bidet-Caulet

“Nel fare due cose in contemporanea, si riesce a farle entrambe piuttosto male, soprattutto quando si tratta di attività che si svolgono a brevissima distanza l’una dall’altra, sul piano della rete neurale”. Per esempio, quando si è in riunione e si scrivono messaggi mentre si cerca di prestare attenzione, non si svolge bene nessuna delle due cose.
 
La nostra capacità di attenzione funziona come un filtro. Se questo filtro viene intasato da troppe informazioni in entrata, che non sono pertinenti e ci tolgono il focus su ciò che stiamo facendo, è chiaro che si venga a generare un meccanismo disfunzionale. Da qui si svilupperà un disagio che purtroppo oggi è sempre più frequente, specialmente tra i giovani che non riescono più a fare meno dello smartphone in qualsiasi ora del giorno. E talvolta anche della notte...

Gardner, ottava e nona forma di intelligenza

Ai sette tipi di intelligenza, stilati da Gardner nella sua teoria delle intelligenze multiple (1961), in seguito, lo stesso Gardner, ha aggiunto un'ottava intelligenza, quella naturalistica, relativa al riconoscimento e la classificazione di oggetti naturali.
Inoltre, ha ipotizzando la nona forma esistenza di intelligenza, quella esistenziale, che riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali concernenti l'esistenza e più in generale nella predisposizione in merito al ragionamento astratto, per categorie concettuali universali.

Teoria delle intelligenze multiple

Parlando di intelligenza ci si riferisce alle attività mentali volte a comprendere la realtà, elaborare percorsi logici, trovare soluzioni.

Il nome intelligenza giunge a noi dal verbo latino “intelligere” che significa capire.
Le teorizzazioni dell’intelligenza hanno oscillato fra una posizione di tipo unitario e una di tipo multiplo modulare.

Nella visione unitaria si parte dal principio che la dimensione generale dell’intelligenza, definita fattore generale g, costituirebbe il nucleo essenziale dell’intelligenza, integrato da abilità specifiche accessorie, sviluppate in seguito e legate a singoli compiti.
La teoria dell’intelligenza unitaria ha poi ceduto il passo alla teoria delle diverse forme d’intelligenza che contraddistinguono senza ombra di dubbio gli esseri umani fra loro. Infatti, mentre alcuni individui sono più abili nel linguaggio, altri presentano maggiori abilità nella matematica, nella musica, nella tecnologia.
Da queste osservazioni si è ritenuto giusto ipotizzare che le forme di intelligenza siano molte e non una soltanto. La teoria dell’intelligenza unitaria ha posto il ragionamento logico astratto come il nucleo dell’intelligenza al quale si legherebbero tutte le altre abilità.
In base alla teoria dell’intelligenza multicomponenziale, esistono funzioni cognitive ben individuabili e distinte dal pensiero logico-astratto. Lo scienziato contemporaneo Robert Sternberg (uno dei principali studiosi della materia) ha proposto una suddivisione in tre forme di intelligenza: la prima quella più astratta definita anche analitica, quella cui si sono riferite le posizioni unitarie, la seconda definita intelligenza pratica, la terza definita intelligenza creativa.
Howard Gardner, un altro studioso americano, ha fornito un’ipotesi di intelligenza multipla più variegata che comprende ben sette forme di intelligenza che identificano diverse attitudini (predisposizioni, talenti). Fra queste sette forme di intelligenza ce ne sono alcune, come la musica e l’uso del corpo, che non sono associate al nucleo dell’ipotetica intelligenza centrale.

Ecco l’elenco delle sette intelligenze. Ad ogni forma di intelligenza sono affiancate le figure che dovrebbero possederla come intelligenza dominante.
• Linguistica (letterati, scrittori, poeti, giornalisti, avvocati)
• Logico-matematica (matematici, fisici, scienziati, programmatori)
• Spaziale (architetti, scultori, pittori)
• Musicale (musicisti, cantanti)
• Corporeo-cinestetica (ballerini, atleti, giocolieri, acrobati)
• Intrapersonale (psicologi, teologi, persone meditative, ricche di introspezione)
• Interpersonale (persone predisposte a interagire con gli altri, mediare a fini umanitari, premi nobel per la pace).

Un’altra teoria alla base dell’architettura della mente, è quella che prevede una organizzazione di tipo gerarchico in cui, da un nucleo centrale, si diramano altre forme di intelligenza, ognuna delle quali costituisce un ambito a sé, ma fa comunque capo ad una forma primaria di intelligenza che governa tutte le altre. In pratica tanto più è ben radicato il fattore g (intelligenza generale primaria) tanto più è probabile che ci siano buoni talenti anche nelle altre forme di intelligenza secondaria.

Molti mettono in relazione la memoria con l’intelligenza e anche se questo può apparire sbagliato, in effetti bisogna tuttavia notare che più facilità si ha nel ricordare ciò che si è appreso, più cose si potranno apprendere e più si potrà sviluppare l’intelligenza. Infatti chi possiede maggiori informazioni, ha più strumenti per poterne apprendere altre.

Un’iperstimolazione del neonato non favorisce un maggiore sviluppo dell’intelligenza anche se, qualche decina di anni fa, lo si è ipotizzato ma poi si è compreso che un piano di iperstimolazione che si basa ovviamente su una gamma limitata di concetti, va a ridurre l’ambito esperienziale e affettivo che una famiglia presente e attenta può offrire.
Invece, negli anziani, opportune stimolazioni possono sicuramente bloccare il deterioramento dell’intelligenza fluida tipico dell’età senile.

Concetto di impotenza appresa

Per impotenza appresa si intende “l’abitudine di interpretare sempre in maniera negativa ciò che succede, al punto che pensiamo di non essere abbastanza capaci di affrontare la maggior parte delle cose che accadono nella nostra vita e non tentiamo pertanto nemmeno di affrontarle”. Lo psicologo Martin Seligman ha introdotto questo concetto dopo i suoi studi (1975) attraverso i quali si è poi sviluppata la psicologia positiva

Secondo Seligman, le modalità di pensiero pessimistico, tipico di coloro che attribuiscono le cause dei propri fallimenti a se stessi o alle persone più vicine a loro, conduce spesso in stati depressivi. Seligman ha tentato di evidenziare se la stessa catena cognitiva di cause non potesse essere ribaltata sul versante positivo
.

Parlando di salute positiva, Seligman non si riferisce all’assenza di malattia, ma ad una condizione caratterizzata dal provare emozioni positive, dall’avere degli impegni finalizzati al raggiungimento di obiettivi positivi, dall’essere in grado di relazionarsi positivamente con l’alterità (2008). Il benessere provato, frutto dell'equilibrio mentale e dello stato di omeostasi, incrementa la longevità delle persone e migliora la qualità di vita anche nell'invecchiamento.


È molto celebre lo script, elaborato da Schank e Abelson nel 1977. Vengono esaminate le fasi di una cena al ristorante, dal momento dell'accoglienza all'uscita dal locale. Ogni azione può presentare alcune varianti a seconda del tipo di ristorante e del luogo in cui si trova.

Per script si intende una struttura di memoria che si riferisce conoscenza stereotipica relativa a sequenze di azioni. Gli script si originano da un fenomeno sociale che ha lo scopo di condividere la conoscenza di azioni stereotipiche con altri esseri umani. 

Lo script viene sfruttato dalla mente per semplificare il ragionamento in tutte le situazioni analoghe. In ognuna di quelle situazioni la mente non ha bisogno di compiere i complessi ragionamenti logici che sarebbero teoricamente necessari, ma si limita semplicemente a eseguire lo script relativo.
Lo script contiene due tipi di conoscenza: una sequenza di azioni e un insieme di ruoli. Una volta riconosciuta una situazione e trovato lo script corrispondente, la sequenza di azioni ritrovate consente di comprendere il contesto e di compiere elaborazioni di tipo “anticipatorio” sugli eventi.

Schank e Abelson (1977) hanno poi introdotto i concetti di copioni, piani e temi per gestire la comprensione a livello di storia. Nel suo lavoro successivo (Schank, 1982-1986) ha elaborato una teoria per comprendere altri aspetti della cognizione.
L’elemento chiave della Teoria della dipendenza concettuale è l’idea che tutte le concettualizzazioni possano essere rappresentate in termini di un piccolo numero di atti primitivi eseguiti da un attore su un oggetto. Nella teoria di Schank, tutta la memoria è episodica, cioè organizzata attorno a esperienze personali piuttosto che a categorie semantiche.
Gli episodi generalizzati sono chiamati copioni, questi copioni vengono salvati nella nostra memoria e su ognuno viene applicata un’etichetta per definirlo e collocarlo. Gli script consentono alle persone di fare inferenze necessarie per la comprensione inserendo le informazioni mancanti.

Il cervello al lavoro

Quanto e in che modo la professione che svolgiamo riesce a modificare il nostro cervello? 
Affrontiamo questa affascinante tematica col dott. Marco Mozzoni, esperto di neuroscienze cognitive. 
Laureato in Filosofia alla Statale di Milano (1990) e in Neuropsicologia a Pavia (2008), è iscritto all’Ordine dei Giornalisti e all’Ordine degli Psicologi.

All’origine di tutto vi è la colpa. Perché la mela non la si doveva proprio toccare. Da lì in poi, la donna avrebbe partorito con dolore e l’uomo avrebbe dovuto... lavorare! Eh sì, il lavoro ci è toccato come punizione, come punizione per quella colpa originaria. Almeno questo dicono le Scritture. Oggi il lavoro, per chi ce l’ha, occupa la maggior parte del tempo allo stato vigile di una persona e può condizionarne l’esistenza a tutti i livelli, economico, sociale, relazionale, psichico. C’è chi è soddisfatto del proprio lavoro, chi meno, chi per niente. Quest’ultimo la vive così male da rischiare di cadere nel circolo perverso dell’ansia e della depressione, vere e proprie “malattie dell’anima” dei giorni nostri, che, se non trattate, sono capaci di danneggiare le funzioni cognitive e il metabolismo del nostro cervello, in un circolo perverso che sembra non avere fine. 
Ma il lavoro ci modifica sempre, anche se ci piace tanto quello che facciamo. Ci modifica, fisicamente e mentalmente. 
La professione che svolgiamo ci plasma al punto da riuscire a “riorganizzare” profondamente il nostro sistema nervoso, non solo il nostro corpo e le nostre abitudini. 
La cosa più evidente è senza dubbio osservabile a livello fisico: chi non si ricorda la pubblicità della famosa bevanda portata “cassa in spalla” da... un fusto con i muscoli d’acciaio? Del resto, mi si passi il paragone, nel cervello succede proprio quello che succede nei muscoli. Più lo si usa, più funziona. E, come lo si usa, così cambia. Proprio come avviene per l’apparato muscolare, le parti che si vanno plasmando “selettivamente” dipendono dallo specifico “esercizio” praticato con costanza. Chi ha dimestichezza con le palestre sa benissimo che ogni diversa macchina serve per agire su muscoli differenti. Per questo si fa preparare, previa valutazione del proprio stato fisico di ingresso e in funzione degli obiettivi personali, un piano dettagliato di allenamento, dove vengono indicati gli strumenti da utilizzare e i tempi da dedicarvi. 
La corteccia cerebrale è divisa naturalmente in quattro sezioni, chiamate lobi: in estrema sintesi, il lobo frontale gestisce il ragionamento, la pianificazione, la produzione del linguaggio, il movimento, le emozioni e la risoluzione di problemi (“problem solving”); il lobo parietale è associato all’orientamento, alla ricognizione spaziale, alla percezione di stimoli; il lobo temporale è dedicato alla percezione e al riconoscimento di stimoli uditivi, alla memoria e al linguaggio; il lobo occipitale infine all’elaborazione visiva. 

Al momento della nascita siamo dotati di una quantità di neuroni in eccesso. Nello sviluppo, la riduzione dei neuroni avviene parallelamente al consolidamento selettivo e alla stabilizzazione dei “circuiti” che prendono forma fra le cellule nervose, in funzione dell’esperienza che facciamo. Come dire, esiste sì un programma genetico che ci portiamo appresso, ma il ruolo dell’ambiente, cioè delle stimolazioni che il mondo ci offre in continuo, è decisivo nella formazione del nostro cervello, che sta alla base delle nostre diverse capacità di pensare, di emozionarci, di agire.