La grande ballerina Carmencita Calderon

 Carmencita Calderon nata il 10 febbraio del 2005, si è spenta il 31 ottobre del 2005.

 Il 10 febbraio aveva festeggiato 100 anni. 

Un gruppo di sue amiche giovani (70-80 anni) che le ha invaso la casa, per festeggiare il suo compleanno con una torta con cento candeline. 

Nel pomeriggio del giorno dopo è andata dal parrucchiere, in serata ha chiamato un taxi e si è fatta portare alla Baldosa, una milonga molto conosciuta a Buenos Aires, nel quartiere Flores. Molti ballerini e appassionati di tango la stavano aspettando. C’era un tavolino riservato per Carmencita. Ha appoggiato la borsetta, si è seduta e poi si è alzata quando Jorgito Dispari l’ha invitata a ballare: un tango, una milonga, un vals. Applausi scroscianti hanno invaso la sala.
Alle due passate ha chiamato un altro taxi ed è tornata a casa, a Villa Lugano, peina di gioia e soddisfazione. Non avrebbe potuto immaginare un modo più bello per festeggiare il suo secolo, tra le braccia di quel bravo tanguero che ha fatto le coreografie di Assassination Tango e molte altre cose, tra cui insegnare tango a Geraldine Rojas.



Le esperienze ottimali e il potere della gratificazione

Illustrazione di Pucci Violi
Le esperienze eudaimoniche, esperienze vissute in sintonia con la propria natura dette anche flow, esternando i propri talenti, conducono gli individui che le vivono lungo un percorso di crescita benefico, arricchente, appagante. Per questo motivo tali esperienze sono definite “esperienze ottimali”, proprio perché in grado di infondere benessere sia a livello psicologico che fisico.
Provate a pensare a pittori, scrittori, musicisti che riescono a dare il meglio di loro stessi traendo da questo una profonda gratificazione, paragonabile a uno stato di estasi.
Certamente non è necessario essere artisti a grandi livelli, ognuno di noi può trarre grandi soddisfazini e gratificazioni appassionandosi al proprio lavoro o a un hobby per il quale si prova una particolare attrattiva e si intuisce una buona predisposizione.
Anche i bambini possono provare le esperienze ottimali, nello sport, nel disegno, coltivando le loro abilità in maniera creativa.
Bisogna tenere presente che un'esperienza per essere definita ottimale, quindi in grado di apportare un beneficio psicofisico, deve essere coinvolgente a livello profondo.
Un’attività che piace solo in parte, che diventa ripetitiva e poi ossessiva, o che annoia, non è certo una esperienza ottimale.
Un’attività che inizialmente piace e non annoia, ma per la quale non si è predisposti, potrebbe richiedere un livello di sforzo esagerato e finirebbe col generare ansia.

Quindi bisogna che il livello di coinvolgimento sia alto, che ci sia una buona predisposizione di fondo (talento) in modo che non vengano richiesti livelli di sforzo eccessivi e che si possano raggiungere buoni risultati senza una fatica stremante. 
L’ansia e la noia sono sempre da evitare.
Un buon impegno che porta al miglioramento delle capacità in maniera serena possono garantire il raggiungimento di esperienze ottimali che sono un vero toccasana non solo per lo spirito, ma anche per il fisico in quanto è scientificamente dimostrato attraverso gli studi della PNEI (psico-neuro-endocrino-immunologia) che le esperienze eudaimoniche abbassano i livelli di cortisolo nel nostro organismo e ci mettono al riparo da malattie fisiche e dalla depressione.
Le persone che hanno un maggiore benessere psicofisico, anche grazie ad eventi positivi, manifestano una maggiore attivazione del corpo striato e della corteccia prefrontale, e anche minori livelli di cortisolo.
Il corpo striato e la corteccia prefrontale sono elementi del circuito dopaminergico della ricompensa in cui la dopamina è il neurotrasmettitore principale alla base di questa rete neurale. 
Una buona attivazione del circuito della ricompensa, in risposta a eventi positivi, risulta alla base del benessere e della regolazione adattiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.
Le esperienze ottimali, definite nel mondo anglosassone Optimal experiences o più sinteticamente flow per indicare la profusione dell’impegno e delle abilità che come un fiume in piena sono capaci di liberarsi, quando una persona è immersa in un flusso creativo, durante il quale non si avverte stanchezza, sotto l’effetto della ricompensa con la gratificazione.

© Rossana d'Ambrosio

Siamo noi a determinare le nostre esperienze o sono le nostre esperienze a plasmare il nostro cervello?

“In quale misura noi siamo gli autori, i creatori, delle nostre esperienze? Fino a che punto esse sono predeterminate dal cervello o dai sensi che abbiamo in dotazione dalla nascita, e in quale misura, invece, siamo noi stessi a plasmare il nostro cervello attraverso l’esperienza?”
Questo è il grande quesito che si pone Oliver Sacks nel suo libro “L’occhio della mente” di Adelphi (p 271, euro 19).
Attraverso le esperienze di alcuni pazienti che hanno perso la vista, a causa di ictus o di incidenti, Sacks cerca di comprendere come il cervello possa riplasmarsi per supplire alla perdita di questo senso. Restare privati della vista pone un individuo di fronte a un’impresa di vasta proporzione che rischia di sopraffarlo; il vecchio mondo se ne va e occorre riorganizzare la propria realtà e il proprio modo di vivere. 
Ovviamente non tutti reagiscono allo stesso modo e questo varia a seconda dell’età e a seconda delle proprie predisposizioni biologiche. Alcuni sperimentano una graduale perdita delle immagini visive, cosicché pian piano i loro ricordi si sfumano; dimenticano i tratti dei loro famigliari, degli ambienti, dei paesaggi e imparano via via a ricollocarsi sulle percezioni uditive, olfattive e tattili.
Per altri, invece, le immagini mentali del passato e i ricordi visivi restano nitidi e 
aggrapparsi a questi li aiuta molto a inserirsi nel nuovo mondo privo di luce ma nel quale, grazie all’occhio della mente, possono ancora orientarsi con destrezza.
Questo è il caso del paziente Zoltan Torey che, dopo aver perso la vista a 21 anni in un incidente, ha cercato di acuire il suo occhio interiore esercitandosi a trattenere e manipolare le immagini mentali, rafforzando così la sua immaginazione visiva, fino a proiettarsi all’interno di macchine e sistemi anche complessi, per poi riuscire a visualizzare soluzioni, modelli e progetti. Torey era stato in grado di sostituire da solo la grondaia del tetto di casa, destando preoccupazione nei vicini che avevano visto un uomo lavorare al buio su un tetto spiovente. Ma lui era riuscito, nel suo intento, ricostruendo una mappa mentale del luogo e sull’immagine dei pezzi da sostituire che poteva visualizzare perfettamente riallacciandosi ai ricordi custoditi nella sua mente. La capacità che fa appartenere queste persone alla categoria dei “non vedenti visualizzatori” era molto sviluppata in Torey e forse ciò era dovuto al fatto che da ragazzo aveva affiancato il padre nel suo lavoro cinematografico e quindi era abituato a leggere i copioni per poi visualizzare trame e personaggi.
Lo studio di cervelli danneggiati, che in maniera inaspettata riescono a trovare la via di adattamento, ci fa afferrare le inaspettate risorse di un organo straordinario che non finiremo mai di conoscere. 
Rossana d’Ambrosio