Siamo noi a determinare le nostre esperienze o sono le nostre esperienze a plasmare il nostro cervello?

“In quale misura noi siamo gli autori, i creatori, delle nostre esperienze? Fino a che punto esse sono predeterminate dal cervello o dai sensi che abbiamo in dotazione dalla nascita, e in quale misura, invece, siamo noi stessi a plasmare il nostro cervello attraverso l’esperienza?”
Questo è il grande quesito che si pone Oliver Sacks nel suo libro “L’occhio della mente” di Adelphi (p 271, euro 19).
Attraverso le esperienze di alcuni pazienti che hanno perso la vista, a causa di ictus o di incidenti, Sacks cerca di comprendere come il cervello possa riplasmarsi per supplire alla perdita di questo senso. Restare privati della vista pone un individuo di fronte a un’impresa di vasta proporzione che rischia di sopraffarlo; il vecchio mondo se ne va e occorre riorganizzare la propria realtà e il proprio modo di vivere. 
Ovviamente non tutti reagiscono allo stesso modo e questo varia a seconda dell’età e a seconda delle proprie predisposizioni biologiche. Alcuni sperimentano una graduale perdita delle immagini visive, cosicché pian piano i loro ricordi si sfumano; dimenticano i tratti dei loro famigliari, degli ambienti, dei paesaggi e imparano via via a ricollocarsi sulle percezioni uditive, olfattive e tattili.
Per altri, invece, le immagini mentali del passato e i ricordi visivi restano nitidi e 
aggrapparsi a questi li aiuta molto a inserirsi nel nuovo mondo privo di luce ma nel quale, grazie all’occhio della mente, possono ancora orientarsi con destrezza.
Questo è il caso del paziente Zoltan Torey che, dopo aver perso la vista a 21 anni in un incidente, ha cercato di acuire il suo occhio interiore esercitandosi a trattenere e manipolare le immagini mentali, rafforzando così la sua immaginazione visiva, fino a proiettarsi all’interno di macchine e sistemi anche complessi, per poi riuscire a visualizzare soluzioni, modelli e progetti. Torey era stato in grado di sostituire da solo la grondaia del tetto di casa, destando preoccupazione nei vicini che avevano visto un uomo lavorare al buio su un tetto spiovente. Ma lui era riuscito, nel suo intento, ricostruendo una mappa mentale del luogo e sull’immagine dei pezzi da sostituire che poteva visualizzare perfettamente riallacciandosi ai ricordi custoditi nella sua mente. La capacità che fa appartenere queste persone alla categoria dei “non vedenti visualizzatori” era molto sviluppata in Torey e forse ciò era dovuto al fatto che da ragazzo aveva affiancato il padre nel suo lavoro cinematografico e quindi era abituato a leggere i copioni per poi visualizzare trame e personaggi.
Lo studio di cervelli danneggiati, che in maniera inaspettata riescono a trovare la via di adattamento, ci fa afferrare le inaspettate risorse di un organo straordinario che non finiremo mai di conoscere. 
Rossana d’Ambrosio

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